Situazione difficile
Sono appena tornato da una decina di giorni in Malawi dove mi sono recato a visitare i nostri centri di Kungoni e Kanengo come prima tappa del mo nuovo incarico. Il Malawi è un Paese in preda a una crisi profonda. Il primo responsabile è, a detta di tutti, il governo liderato dal presidente Bingu Wa Mutarika che, dopo un primo mandato in cui si era distinto per un lavoro ben fatto, sta ora commettendo una serie di errori grossolani a tutto campo e mostrando una distinta vena autoritaria e dittatoriale che fa pensare al vecchio dittatore Kamuzu Banda che per più di trent’anni governò il Malawi con un pugno di ferro.
Una delle prime cose che colpiscono sono le piazzole deserte di buona parte dei distributori (segno che non c’è carburante) oppure le lunghe file di mezzi (segno che qualcosa c’è o che sta per arrivare). Alcuni giorni manca la benzina, altri il gasolio, spesso entrambi. A tal punto che la gente ha trasformato l’acronimo DPP (Democratic Progressive Party, il partito al potere) in Diesel Petrol Palibe (che in Chichewa /Inglese significa “Manca benzina e gasolio”!)
Mancanza di carburante significa mancanza di trasporto e quindi difficoltà nella distribuzione dei beni di consumo con tutte le conseguenze che ne derivano. La situazione resta tesa e i 18 morti inseguito a manifestazioni popolari occorse il 22-23 luglio scorso ne sono un triste ricordo e una minaccia che si potrebbe ripetere.
Viaggio a Mua
All’indomani del mio arrivo alla capitale, Lilongwe, sono già in viaggio alla volta della missione di Mua. In compagnia di due giovani Padri Bianchi, prendiamo la strada che punta verso i lago e ci fermiamo per pranzo e una nuotatina a Senga Bay, poco distante dalla cittadina di Salima (epicentro di un forte terremoto nel 1989). La strada è ora larga e ben tenuta, ben diversa da quella lingua di asfalto che percorsi per la prima volta 29 anni fa quando, all’alba dei miei 22 anni, mi tuffavo nel mondo sconosciuto di quella che sarebbe stata la mia prima esperienza nel continente africano. I villaggi e le cittadine che attraversiamo però mi sembrano poco cambiati negli ultimi 30anni, segno che il Paese non ha compiuto grossi balzi in avanti.
Anche il lago è sempre quello, e meno male! Con i suoi circa 600 km di lunghezza e 75 km di larghezza (nel punto più largo) è il terzo bacino di acqua dolce dell’Africa e il settimo lago al mondo per estensione. Le sue acque limpide sono abbastanza sicure. Bisogna evitare alcune zone per non dover competere con coccodrilli e ippopotami o per non prendersi la bilharzia (malattia trasmessa in acqua e causata da minuscoli vermi che vivono e si moltiplicano in piccole lumache acquatiche. Il parassita entra nell'uomo attraverso i pori della pelle, annidandosi nell'intestino o nella vescica e causando dolori addominali e sangue nelle urine). Ai miei tempi ( si parla così dopo che si è superato il mezzo secolo!) si credeva che il lago Malawi fosse l’unico in Africa australe a non essere infestato da questi vermi maledetti ma ora è confermato che siano presenti anche qui, anche se non dappertutto. Una cosa è certa: in quel pomeriggio assolato un bel bagno nelle chiare e fresche acque del lago è stato una meraviglia.
Al ritorno dal lago ci fermiamo a salutare una famiglia. La signora è congolese, sposata con un ufficiale dei paracadutisti del Malawi. La mia sorpresa è stata grande perché non pensavo che il Paese avesse dei velivoli militari e invece di tenermelo per me l’ho detto all’ufficiale. Per fortuna ha preso la cosa dal verso buono e abbozzando un sorriso mi ha detto che in effetti la flotta aerea è molto ridotta ma che per lo meno un velivolo per i lanci ce l’hanno!
Mua e Kungoni
All’imbrunire siamo arrivati a alla missione. La costruzione, che risale al 1902, si trova su una collinetta, addossata alle montagne che si innalzano fino all’altopiano di Dedza. È una delle costruzioni più antiche del Paese, rimodernata una ventina d’anni fa in seguito ai danni riportati nel terremoto del 1989, su due piani e con vista a est sul lago Malawi che in linea retta dista pochi chilometri. I Padri Bianchi sono sempre stati presenti fin dalla sua fondazione e continuano ad esserlo con una giovane comunità di padri e di candidati (stagisti).
Attiguo alla missione c’è l’importante centro culturale KuNgoni, fondato nel 1976 dal Padre Bianco canadese Claude Boucher. Qui si trova una scuola di formazione per intagliatori, pittori, scultori, un museo, una galleria d’arte e una biblioteca. Recentemente è stato aperto anche un ostello per le comitive di turisti che però scarseggiano in questo periodo dell’anno.
KuNgoni è un interessantissimo esperimento di incontro, di sperimentazione interculturale, di inculturazione del messaggio cristiano nella realtà locale, di conservazione di tradizioni, danze e racconti che rischiano di scomparire. È un punto di riferimento obbligato per malawiani e non desiderosi di conoscere meglio la storia, le tradizioni, la cultura e la religione del Malawi.
Questo assume un’importanza ancor maggiore oggi in un Paese che, come molti altri,è in rapida trasformazione, esposto alla globalizzazione omogeneizzante veicolata dai media che presentano modelli lontani e alieni ma accattivanti. Nella fretta della modernizzazione a tutti i costi si rischia di buttare il bambino ( i valori della tradizioni) con l’acqua sporca (le zavorre culturali che sono ormai inutili o d’impiccio). La missione di Mua e KuNgoni sono certamente una tappa obbligata per chi visita il Malawi.
La vecchia missione
Sabato pomeriggio (24 settembre), in compagnia di Ervé, giovane candidato del Burkina Faso, parto alla volta della vecchia missione di Mtakataka, distante una ventina di km da Mua.
Percorriamo una quindicina di km in macchina che dobbiamo però lasciare sull’argine del fiume. Attraversato il corso d’acqua a piedi (per fortuna è la stagione secca) percorriamo un breve tratto di savana e dopo circa mezzora intravediamo quello che resta della vecchia missione di Mtakataka.
Costruita nel 1937, dopo aver finalmente ricevuto il permesso del capo tribù locale che in un primo momento l’aveva negato pensando che questi bianchi barbuti (all’epoca praticamente tutti i missionari avevano la barba) gli volessero portare via le terre, la missione era davvero una realizzazione ciclopica.
Milioni di mattoni furono utilizzati per costruire sotto l’occhio vigile e esperto di un fratello non solo l’imponente chiesa ma anche varie costruzioni tutt’intorno, nel bel mezzo di un territorio densamente popolato. Nel 1957ci fu una piena straordinaria del fiume e la gente fu costretta ad abbandonare la zona. L'esondazione raggiunse la missione e le acque entrarono nella chiesa riempiendola di un metro di fango per tutta la sua estensione. Forse si sarebbe potuto organizzare una gigantesca opera di pulizia ma il fatto che la gente se ne fosse andata costrinse i missionari a ritirarsi, seppure a malincuore per non tornarvi mai più.
Quando visitai il complesso nel 1983, rimanevano in piedi le case dei padri, delle suore e la chiesa.
Oggi rimane in piedi solo la suntuosa facciata come solitario testimone di un’opera gigantesca di cui fra qualche anno non rimarrà più nessuna traccia
Tappa a Balaka
Domenica pomeriggio, dopo aver salutato i confratelli di Mua, Paul, giovane missionario del Burkina Faso, mi accompagna fino a Balaka, distante un centinaio di km verso sud. Da qualche anno i Padri Bianchi hanno aperto una casa di formazione che quest’anno, all’apertura del nuovo anno accademico il 3 ottobre, vedrà raggiunta la sua capacità massima di 40 persone visto che gli studenti saranno 36 e i padri-formatori quattro.
La sera siamo invitati per la tradizionale spaghettata in casa dei Monfortani bergamaschi che ogni domenica sera aprono le porte della loro casa provinciale a tutti i religiosi presenti a Balaka.
Il giorno dopo trascorre in visite varie. Martedì mattina mi sveglio e sento di avere la febbre e un certo malessere generale. Mi viene il dubbio che sia l’inizio di un attacco di malaria, il primo dopo decenni in cui, per fortuna o per una speciale benedizione, mi è stata risparmiata questa sgradevolissima malattia. La febbre rimane tutto il giorno insieme a un senso di grande spossatezza. La sera, memore delle parole di San Paolo, mi bevo un bicchiere di vino rosso e, per essere sicuro di dormire, una bustina di Aulin. L’indomani mattina sono fresco come una rosa. Di sicuro non è malaria; sia quel che sia, afferro al volo un passaggio per Kanengo, un sobborgo di Lilongwe, distante circa 170 km, dove arrivo poco prima di mezzogiorno.
Nei pochi giorni che vi trascorro ho anche occasione di incontrare i cari e simpatici Stefano e Francesca; una giovane coppia di Torino, innamorati dell’Africa che vivono qui in Malawi quando non sono in giro con clienti con cui condividere la loro passione e le loro conoscenze. Per conoscerli meglio date un’occhiata al loro sito: www.africawildtruck.com
Express bus
Dopo alcuni giorni con la comunità di Kanengo dove i padri si occupano della parrocchia, di un centro di formazione e per i nostri studenti e di un centro di riflessione teologica e sociale, mi accingo a ripartire per Lusaka. Distanza: poco meno di 700 km. Richiedo un biglietto su un autobus espresso, il migliore che ci sia. Il prezzo è ragionevole: attorno alle 30 euro. In mente ho gli autobus che percorrono Maputo- Beira o Johannesburg -Maputo ma la realtà locale-me ne accorgerò a mie spese- è ben diversa. La partenza è prevista per le 6 del mattino, dal terminal degli autobus che è una zona all’interno del grande mercato di Lilongwe. Nonostante l’ora mattutina, il posto pullula di gente e la prima cosa che uno sente è una terribile puzza che poi si spiega alla vista di cumuli di pesce secco che stanno andando a ruba. Il bus c’è, con qualche raro passeggero. Ci sono un paio di signorine europee che mi salutano (ho osservato più volte questo fenomeno: quando sei in condizioni di netta inferiorità numerica ti viene naturale sorridere e attaccare bottone con gente che, esternamente, ti assomiglia. Come per rassicurarci, pensando che in caso di necessità almeno tra noi “simili” ci aiuteremo. Interessante fenomeno sociologico su cui riflettere). Una prima occhiata al mezzo mi dice che qui il lusso, se c’è stato, è da un bel po’ che non è più di casa. Salgo, senza che nessuno mi chieda nulla, (e nessuno lo farà mai per tutto il viaggio. Forse da queste parti è impensabile che un bianco salga sull’autobus senza aver pagato il biglietto. Altro fenomeno interessante). L'interno lascia molto a desiderare e mi stupisce che sotto ogni sedile sono stipati degli imballaggi di Coca e Fanta. Tutto fa presumere che sarà un viaggio con zero comfort e di molta fatica.
L’autobus parte puntualissimo, aprendosi faticosamente un varco tra mucchi di pesce essiccato e una folla vociante. Le mosche, per fortuna, dormono ancora. Il viaggio fino al confine (100 km circa) è rapido e indolore ma una volta arrivati si perdono due ore senza sapere perché. Il motore rigorosamente acceso, l’autista sparito. Scambio due chiacchiere con le ragazze. Sono due infermiere finlandesi in Zambia per tre mesi per un programma di scambio tra i due Paesi, di ritorno a Lusaka dopo qualche giorno al lago. Mi chiedono se so a che ora arriveremo. “Alla fine del viaggio” rispondo, e capiscono che non è una battuta.
Dopo il confine ci fermiamo in una cittadina sciatta e scialba come tante, Chipata, per quasi due ore. Motore sempre acceso. Si ignora la ragione di una sosta così prolungata. Alle 11.30 si riparte. Le ultime parole famose: “Signori, ci fermeremo solo a Lusaka (distante 600 km) a meno che qualcuno di voi stia per morire”. Dopo un po’ smetto di contare le soste. Il pullman è mezzo vuoto per cui l’autista si ferma ogni volta che vede un gruppo di persone in attesa. L’espresso si trasforma inesorabilmente in accelerato.
Comincia a far caldo e l’aria condizionata ci viene da tutti i finestrini aperti. Anche la polvere, bestioline di vario tipo e sapori e odori a volte gradevoli, altre decisamente no. Ad un tratto l’autista ferma il mezzo ma non arresta il motore. Il suo assistente apre il vano motore (all’interno dell’autobus!), armeggia con una chiave inglese e all’improvviso fuoriesce uno sbuffo di vapore seguito da un’abbondante schizzo di acqua bollente. Preoccupato, gli chiedo se dobbiamo cominciare a tagliare dei rami per improvvisare delle capanne onde passare la notte. Mi sorride dicendo che il motore è sanissimo; aveva solo bisogno di “un salasso”. Incredibilmente i fatti gli daranno ragione.
Abbiamo accumulato due ore di ritardo e siamo in piena boscaglia. Qui e là si intravede il chiarore di qualche lampada a petrolio.Il cielo è scuro e solcato da bagliori di lampi. Cala improvvisa la notte e comincia a piovere. I tergicristallo non funzionano. Così ogni volta che incrociamo un veicolo l’autista deve praticamente fermarsi perché non vede nulla. Ma c’è perlomeno una grossa consolazione. Non sono mai riusciti a far funzionare la radio a bordo e così siamo scampati al tormento di ritmi frenetici sparati a tutto volume durante le interminabili 14 ore di viaggio. Sono infatti le 8 di sera passate quando l’autobus si arresta in quello che sembra un girone infernale dantesco e che invece altro non è che il terminal degli autobus di Lusaka. Non ho più l'età per fare il boy scout.
Hi Claudio. I see you are in Malawi. despite the fuel shortages, I hope there is some joy for you there. My Italian ain't getting any better, so much of it I don't know: are you staying there now? Lots of love, Olinda.
RispondiEliminaWell, I persevered a bit more and got to the boy scout bit and the rest of the drama. 14 hours is too long, I agree. But by now I hope allis well.
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