Mozambico
Nuova comunità dei
Padri Bianchi a Boane
Padre Claudio Zuccala,originario
della Valle Imagna (BG), ci invia le sue prime riflessioni dal Mozambico, Paese
in cui è arrivato come giovane missionario più di trent’anni fa. Dopo alcuni
anni di presenza e di servizio nella comunità di Treviglio è ripartito per
ritrovare il suo “primo amore”. Ancora
senza “fissa dimora” ma fiducioso in una soluzione a breve termine ci parla del
presente partendo dall’inizio della vicenda personale storia che lo lega alla Pérola
do Índico
Un ritorno che sa di
nuovo inizio
Sono tornato in Mozambico l’11 di ottobre 2021, dopo poco
più di 5 anni di presenza in Italia, nella comunità dei Missionari d’Africa a
Treviglio.
Questo è stato il primo Paese africano dove sono giunto come
giovane prete con nemmeno un anno di ordinazione, nell’ormai lontano maggio del
1988. Il battesimo africano era
avvenuto qualche anno prima, in Malawi, prima di intraprendere gli studi di
teologia a Londra.
La prima destinazione
fu Manga, un sobborgo della seconda città del paese, Beira, balzata alla
notorietà un paio d’anni fa come vittima principale del pauroso ciclone Idai
che la investì in pieno. Dopo i primi anni in parrocchia in un contesto di
guerra civile e di “spoliazione” della Chiesa in termini di perdita di potere,
influenza e strutture, ho avuto la fortuna, negli anni novanta, di lavorare
come professore e formatore negli unici seminari interdiocesani a Maputo, la
capitale del Mozambico, e a Matola, nel profondo sud del Paese. È stato un
periodo in cui la Chiesa e il Paese sembravano destinati ad intraprendere un
cammino lineare di rinascita e di ricostruzione dalla cenere delle terribili
distruzioni causate da quindici anni di guerra civile fratricida. Pochi
pensavano allora che il cammino sarebbe stato molto accidentato e con parecchi
episodi di involuzione.
Nel 2010, al termine di un periodo settennale alla direzione
della rivista Africa, riapprodai
sulle coste della Perla dell’Oceano Indiano per un periodo di altri 4 anni intervallati
da un biennio in Zambia. Questo è dunque,
dopo aver abbondantemente superato la boa dei sessant’anni, l’inizio della
quarta fase di vita missionaria in Mozambico e nella sua chiesa e mi sembra più
appropriato parlare di una ripartenza
piuttosto che di un semplice ritorno. Il Paese infatti, come il resto del
continente africano, si è mosso e sta cambiando ad una velocità vertiginosa per
cui, se è pur vero che la storia è sempre maestra di vita, il presente pone
domande e sfide inedite che richiedono risposte altrettanto innovative e
originali.
La scelta di Boane
È da circa due anni che i Missionari d’Africa decisero di riprendere,
dopo quasi vent’anni, una presenza nel
sud del paese, il più possibile vicino a Maputo, dato che è molto utile avere
un pied-a-terre nella capitale dov’è,
purtroppo, accentrata la maggior parte dei servizi. L’arcivescovo di Maputo, il
francescano Francisco Chimoio, ormai nell’ultimo anno del suo mandato, si mostrò
molto compiaciuto del nostro arrivo, visto che furono proprio i Padri Bianchi i
suoi primi formatori quando entrò in Seminario nel lontano 1960, ma ci disse
anche, a chiare lettere, che non aveva nulla da offrirci dentro l’area
cittadina. Come controproposta, indico la realtà di Boane, una zona e una
parrocchia molto ampia a una quarantina di chilometri da Maputo, lungo la strada
che porta al vicino eSwatini, (ex Swaziland). Boane è anche il nome di della
città e dell’omonimo distretto, una zona largamente rurale fino a una ventina
d’anni fa mentre oggi, con il quintuplo (250mila ca) degli abitanti di allora, si
trova ad affrontare una fase di massiccia urbanizzazione.
La parrocchia di Boane si estende su un’area di circa 820
kmq (la metà di quella della città metropolitana di Milano) e oltre alla sede principale,
in città, è costituita da 21 piccole comunità dove i fedeli si trovano
regolarmente per pregare insieme, riflettere, analizzare bisogni e problemi. Probabilmente
la pandemia ha interrotto la regolarità degli incontri ma lo scopriremo solo
visitando la zona.
Da un paio d’anni non ci sono sacerdoti a tempo pieno anche
se due membri dell’istituto dei Salvatoriani che abitano a una decina di
chilometri vi prestano servizio regolare. È qui, alle porte di Boane, che ci è stata offerta un’abitazione
appartenente ai missionari di Picpus che l’avevano costruita come centro di
formazione. Per evitare che la casa venisse saccheggiata, è stato chiesto a un
certo numero di persone di occuparla. Probabilmente
però non è stato spiegato loro come si mantiene una casa e non si sono dati
nemmeno i mezzi per farlo, per cui, pur essendo sano strutturalmente,
l’edificio ha bisogno di parecchi interventi e di una pulizia radicale prima
che possa diventare di nuovo abitabile. Inoltre all’interno non è rimasto quasi
più nulla per cui bisognerà pensare a rifornirla con il minimo indispensabile.
Per quel che mi riguarda, finora (siamo a fine novembre) ho goduto
dell’ospitalità di due famiglie di amici che molto generosamente mi hanno
alloggiato nelle loro case in città, il che si è rivelato molto utile dovendo
andare da un ufficio all’altro. Tra una settimana arriverà un mio confratello
tedesco che rimarrà qualche giorno in casa del vescovo e poi ci piacerebbe poter
entrare a “casa nostra” per Natale anche se non è così sicuro che ce la faremo
coni tempi.
Prospettive per il
futuro
La burocrazia mi ha portato via un sacco di tempo in questo inizio
così come il riabituarsi a tante cose pratiche in parte dimenticate o totalmente
nuove. Altro tempo, ma almeno questo utilizzato bene, è stato usato per
riannodare rapporti e stabilirne altri.
Pensando a quello che verrà è difficile farsi un’idea chiara
di quello che ci aspetta e di cosa riusciremo a fare. Dovremo misurare le
nostre forze primo perché noi due, i “pionieri” di questa presenza, non siamo
più dei giovanotti e poi per cercare di continuare la collaborazione con chi ha
tirato la carretta fino ad ora.
Conoscere la realtà in cui andremo ad operare sarà
fondamentale; non dovremmo avere problemi di comunicazione verbale visto che
parliamo la lingua ufficiale, il portoghese, molto diffuso nelle zone urbane.
Forse avremo bisogno di traduttori andando a visitare le comunità più distanti
dalla sede centrale dove, credo, la maggior parte della gente usa la lingua
locale, lo shangana, affine allo tsonga,
parlato nel vicino Sudafrica. Mi piacerebbe avventurarmi nello studio della
lingua del posto perché non solo ti apre un mondo nuovo ma ti aiuta a capire la
cultura del posto che è la culla dove nasce ogni forma di linguaggio. Guardando
alla mia carta di identità a volte penso che sia un tentativo un po’
velleitario ma credo che sia una giocata da tentare.
Anche se abbiamo voglia e intenzione di metterci all’opera fin
da subito, sarà bene non cedere alla tentazione di buttarsi anima e corpo nel
“fare”. Sono convinto che, in questo nostro tempo, le opere ormai non stiano
più al centro della missione e che l’epoca presente esiga da parte di noi tutti
una re-visitazione e una costante attualizzazione del concetto di missione. Penso
che il cuore della missione sia quello che ha sempre dato i maggiori frutti: la
testimonianza di una vita evangelica, semplice e casta. Certo, niente di nuovo,
ma quante volte abbiamo agito con totale coerenza e in sintonia con questo
principio e fondamento e non ci siamo invece buttati anima e corpo nella
creazione di strutture che adesso non sappiamo come mantenere? Oggi siamo piuttosto
chiamati ad essere sempre più una Chiesa che si fa conoscere per la capacità di
stare vicino e di prendere il lato degli ultimi, segno di comunione e strumento
di riconciliazione di pace piuttosto che per lo sforzo di recuperare una posizione di forza e di influenza
ormai forse persi per sempre.
Sicuramente qualche decennio fa la definizione della
missione ad gentes era più netta:
oggi viviamo una situazione più fluida e tutto ne risente. All’occhio attento
però emergono o ritornano ad occupare importanza nuove direzioni e sottolineature. Pensiamo per
esempio all’impegno per l’ecologia integrale a cui ci richiama regolarmente
papa Francesco e che solo qualche anno fa non sarebbe stato minimamente
sfiorato parlando dello specifico della missione ad gentes. Oppure a temi come l’opzione fondamentale per i
poveri (o meglio, gli impoveriti) e la liberazione, forse accantonati perché
rischiavano di essere politicizzati ma tornati oggi prepotentemente in prima
linea.
Chiudo con una riflessione che mi è venuta fatta
mentre osservavo,un paio di giorni fa, gli 80 giovani cresimati (150 in due
giorni) durante una celebrazione marcata dalle coinvolgenti danze e canti in
shangana. Ecco una grande risorsa dell’Africa e della chiesa locale: la sua
giovinezza e la sua vitalità. Il 50 % della popolazione mozambicana è sotto i
14 anni. A questi giovani, soprattutto, siamo inviati e chiamati ad offrire una
testimonianza semplice e autentica della bellezza della fede e della gioia profonda
e vera che troveranno nell’incontrare Gesù che, pur con la nostra povertà e i
nostri limiti, saremo capaci di presentargli.
A tutti quelli che leggeranno queste righe mando i
miei più cari auguri per un anno nuovo ricco di benedizioni. Che il Signore
conceda a ciascuno di voi quello di cui ha più bisogno per essere davvero
felice e testimone del suo amore.
Un caro saluto