Chiesa- comunità
Sono le 7.30 di domenica 23 gennaio. Dopo un’alba grigia e con nuvole che minacciavano pioggia, il cielo si apre e un sole feroce comincia picchiare sulle nostre teste. Ci troviamo all’interno di una chiesa che però non ha il tetto e quindi siamo alla mercè dei fenomeni naturali. Qualcuno tra gli anziani si copre la testa con un cappello o con un foulard e man mano che i raggi cocenti si fanno sempre più feroci, si aprono anche alcuni ombrelli. Le due chierichette, i lettori e il sottoscritto siamo nella zona d’ombra proiettata dal muro di quello che un giorno (forse) sarà il presbiterio ma abbiamo il tempo contato: la zona protetta si restringe lentamente ma inesorabilmente attorno a noi.
Sono nella comunità di padre Americo, uno dei 21 punti di preghiera in cui si riuniscono i parrocchiani di Boane. Per me, questa è la settima che visito, per la prima volta. Solo in un’occasione ho dovuto tornare indietro perché la strada a un certo punto non c’era più, spazzata via dalle piogge torrenziali dei giorni precedenti.
Dopo la messa il consiglio della comunità mi invita a fermarmi per le necessarie presentazioni. Sono una decina di laici, metà dei quali maestri e professori, a capo dei vari ministeri: liturgia, finanza, catechesi, caritas, speranza… Questa è davvero una chiesa ministeriale che, malgrado le mille difficoltà che l’attraversano, da ormai quarant’anni ceca di essere chiesa-comunione, basata sulla corresponsabilità e la condivisione dei servizi e dei ministeri. È così che la fede ha continuato a crescere anche durante gli anni terribili della guerra civile quando molte parrocchie sono rimaste senza preti per più di dieci anni. E questo ha fatto sì che anche le recenti tempeste che hanno sconvolto questa parrocchia non siano riuscite a spegnere la fiamma della fede.
Casa- fortezza
Dopo aver sperato (invano) di entrare all’inizio dell’anno nella casa in rifacimento, adesso ci siamo. L’ultima cosa urgente da sistemare era la questione sicurezza: tutti quelli che abbiamo consultato ci hanno detto che andare a vivere in un luogo relativamente isolato, senza un minimo di protezione, è cercare guai in un modo insensato. Così, seppure a malincuore, ci siamo dovuti adattare a richiedere l’appoggio di un istituto di vigilanza, non tanto per proteggere beni che non abbiamo ma per poterci semplicemente sentire tranquilli dentro i muri di casa. L’aumento della criminalità a tutti i livelli e la poca fiducia che si nutre nelle forze di polizia, tristemente famose per la loro scarsa efficacia e efficienza, hanno fatto esplodere il settore delle compagnie di sicurezza.
Non siamo ancora ai livelli del Sudafrica dove già anni fa le persone che lavoravano nel settore erano numericamente il doppio delle forze di polizia, ma siamo su quella strada. Così anche noi vivremo dietro alti muri con in cima il filo spinato o aguzzi cocci di bottiglia, una recinzione elettrica e persino un guardiano notturno armato. Triste ma necessario.
Cicloni e guerriglia
Pur non avendo la forza distruttrice di un ciclone, ha comunque causato parecchi danni, rovesciando impressionanti quantità di pioggia nel giro di poche ore che hanno fatto straripare alcuni fiumi già vicini al livello di guardia da qualche giorno. I nostri confratelli nelle zone centrali del Paese (soprattutto a Tete) hanno vissuto in prima persona situazioni drammatiche. Anche qui al sud la pioggia ha causato inconvenienti: non ha piovuto molto finora ma abbiamo a che fare con dei corsi d’acqua che nascono nei paesi vicini (Sudafrica e eSwatini) dove le precipitazioni sono in genere molto abbondanti in questo periodo. È per questa ragione che l’Umbeluzi, fiume che passa a qualche centinaio di metri dalla nostra abitazione, è cresciuto fino a sommergere uno dei guadi usati da persone e da mezzi, costringendo i più di 20mila abitanti della zona sull’altra riva a un lungo giro per recarsi in città. Proprio perché siamo ormai in piena stagione delle piogge, è alto il rischio di uno o più cicloni che potrebbero colpire la costa mozambicana da qui fino alla fine di marzo. In questi giorni il ciclone Batsirai sta minaccinado la costa orientale del Madagascar. Difficle al momentoprevedere se scaricherà sull'isola tutto il suo potenziale o se l'attreverserà giungendo nel canale del Mozambico dove l'acqua calda del mare potrebbe riattiarlo. La povera gente è rassegnata e spera solo che non succeda il peggio mentre le molte agenzie di soccorso locali e internazionali preparano i loro piani di emergenza, sicure dei fondi che in questi casi non mancano mai.
Si parla invece poco, almeno qui nel sud ( ed è comprensibile perché siamo a 2mila km dai luoghi tribolati) della guerriglia che continua a provocare morti, distruzione e un grande numero di sfollati (si parla di circa 4mila persone nelle ultime settimane). Il governo punta ancora sulla soluzione militare ma gli esperti sono concordi nel dire che è un approccio sbagliato e che potrà al massimo arginare il fenomeno ma non trovare delle vere soluzioni durature.
Spingi che partirà!
Mentre attraverso la piana dell’Umbeluzi, diretto alla sede della parrocchia, vedo segnali di speranza e di preoccupazione: campi rigogliosi che promettono ottimi raccolti e zone allagate dove crescerà ben poco. Ville lussuose si alternano a catapecchie dove non dovrebbero vivere nemmeno gli animali. La strada è trafficata e sfrecciano via veloci, dove si può, alcuni grossi SUV. Ogni tanto, avvolti in genere da una nube di gas di scarico, appaiono anche degli autobus di linea che rischiano di sfasciarsi ad ogni momento, sovraffollati all’estremo, con buona parte dei passeggeri con tanto di mascherina in ottemperanza alle norme vigenti, la cui efficacia è però alquanto discutibile, viste le condizioni.
Xova, xitaduma! grida in shangana l’autista di un mezzo fatiscente a un giovanotto madido di sudore che ce la sta mettendo tutta per far avanzare il veicolo verso una leggera discesa. “Spingi che parte!”. Non è detto, ma in certi momenti è l’unica cosa che rimane da fare.